martedì 23 dicembre 2008

STIVALI AI PIEDI DI UN GATTO - Rilettura de "Il gatto con gli stivali" per il concorso Ri-Raccontiamo di www.xii-online.com

Fin dagli albori del tempo, è sempre stata una questione di potere. Potere che, nel mondo degli esseri umani, si è sovente nascosto in animali, fiori o alberi. In oggetti incantati che hanno trasformato uomini comuni in grandi eroi degni di imprese leggendarie. Naturalmente, nell’ottica della totalità cosmica, queste sono rare eccezioni perché, nella maggior parte dei casi, il potere rimane nascosto, senza mai manifestarsi, arrivando addirittura, dopo centinaia e centinaia di anni, a dissiparsi e scomparire nel nulla.
Talvolta può però accadere che il potere prenda coscienza di sé e dell’imminente dissoluzione, tanto da mettersi all’opera per far percepire alla realtà circostante la sua magnificenza. Arriva il momento in cui il potere, dal basso di un logoro paio di Stivali, sussurra a se stesso: “E’ ora di agire, sennò il buio avrà il sopravvento... e questo è inammissibile...”.
Furono pensieri molto simili a questi che si sostituirono con prepotenza alla dolcezza del letargo in cui gli Stivali erano piombati da almeno mille anni, e quando il mugnaio, che li aveva acquistati tanto tempo prima per la misera somma di tre soldi, morì, gli Stivali compresero che il momento era arrivato. Dovete infatti sapere che il suddetto mugnaio aveva lasciato in eredità ai suoi tre figli un mulino, di diritto al maggiore, un mulo per il secondo genito, e un gatto per il più piccolo, un allegro perdigiorno che in città tutti conoscevano con il soprannome di Carabà.
Mentre i primi due erano soddisfatti dei lasciti paterni, Carabà non faceva che lamentarsi per la sorte avversa.
“Cosa diavolo ci faccio con un gatto?” si lagnava rassegnato con gli amici venuti per portare le condoglianze per il defunto mugnaio.
“Come pasto è misero e dalla sua pelliccia posso ricavare tutt'al più un paio di guanti,” disse imbronciato agli amici che non riuscivano a credere che in un momento come quello Carabà pensasse solo all'eredità.
“Questo gatto non serve a niente,” e furono queste ultime parole a far scattare la forza che ebbe così il sopravvento sulla natura umile e remissiva della forma che la ospitava.
Gli Stivali dischiusero gli occhi e il gatto fu l’essere che per primo videro. Una comunissima palla ronfante di pelo rosso che, ignara delle intenzioni culinarie del nuovo padrone, gli si stava stupidamente strofinando contro le caviglie.
Gli Stivali, senza nessuna indecisione, fissarono lo sguardo sulla testa dell’animale e un’onda invisibile, compatta come una mano di nebbia, investì il gatto che ebbe un violento sussulto. Il pelo gli si drizzò e con un ultimo sprazzo di felino terrore, si voltò nella direzione degli Stivali soffiando selvaggiamente.
Fu però una questione di secondi: gli Stivali avevano creato un ponte mentale con il gatto e nel momento in cui il contatto fosse diventato fisico, allora la possessione sarebbe stata completa e, più importante, inscindibile.
In un primo, impalpabile e ormai remoto momento, gli Stivali avevano valutato se entrare i contatto direttamente con l’essere umano, ma gli esseri umani apprezzano maggiormente il potere quando ne possono godere i frutti senza sforzo e, vista l’indole pigra di Carabà, gli Stivali avevano preferito trovare un buon “intermediario”. E l’intermediario non poteva essere che il gatto, sciocca eredità di un padre troppo buono che non aveva mai avuto dimestichezza con il concetto di utilità.
Guarda l’uomo, sussurrano gli Stivali e il gatto obbedì; guardalo e comprendilo, e il gatto, invaso dalle scariche elettriche di una poyenza arrivata sulla terra da oltre l’universo, compresse e intese quelli che fino a pochi istanti prima erano soltanto suoni privi di valore.
E ora, agisci! e quest’ultimo ordine, esploso nella mente del gatto come un tuono, fece sobbalzare l’animale in modo così violento da attirare l’attenzione dell’uomo.
“Si può sapere cosa diavolo ti prende?”
Adesso!
“Padrone” disse con un sussurro l’animale, “datemi gli stivali” e, annaspando in una traballante andatura su due zampe, il gatto si avvicinò ad alcuni sacchi di farina.
Sulle prime Carabà pensò di essere vittima di un incubo, ma quando si rese conto che era ben sveglio e che quello che aveva visto corrispondeva alla più concreta verità, una cappa di paura gli avvolse la testa e scese giù fino al cuore. Sapeva poco di magia, ma quello a cui aveva assistito non poteva essere altro che una manifestazione della più malefica stregoneria e solo gli stupidi igniravano cosa succedeva a chi veniva accusato di essere in conbutta con forze oscure.
Senza riflettere, Carabà prese una grossa pala e, maldestramente, cercò di colpire il gatto.
L’animale, ma soprattutto, gli Stivali furono pressi alla sprovvista dalla reazione di Carabà e solo con un ultimo e disperato intervento riuscirono a deviare la pala che, altrimenti, avrebbe trasformato il gatto in un'autentica frittata.
La pala s’abbatté su alcuni sacchi che si squarciarono: una nuvola bianca e farinosa avvolse in pochi attimi la stanza.
“Dove sei brutta bestia?” disse l’uomo vibrando colpi a casaccio.
Il gatto, rannicchiato sotto ad un tavolo, non riusciva a muoversi tanta era la paura che scorreva tumultuosa nelle sue vene e fu così che gli Stivali presero il totale controllo della situazione: con un fascio sferzante di pura energia sollevarono di peso il gatto e con precisione millimetrica s’avvilupparono attorno ai piedi dell’animale. Un ultimo sforzo e si modellarono alla perfezione a quelle zampe tanto insolite per una calzatura fatta per gli uomini.
Gatto e Stivali fuggirono in aperta campagna, trovando momentaneo rifugio in un campo di granturco.
L’attesa però non poteva essere troppo lunga perché gli Stivali strepitavano d’energia e tutto quel potere non poteva tornare semplicemente a riposare. Tutt’altro! Dovevano agire. Assolutamente agire!
Gli Stivali scalpitavano, si muovevano freneticamente, cercando l’idea giusta perché tutto finisse al meglio.
Cos’è che vogliono gli uomini? si domandarono gli Stivali.
“Non lo so,” rispose mestamente il gatto.
Zitto! urlarono gli Stivali e ancora una volta il gatto sobbalzò a mezz’aria.
Ricchezza, fu la parola che gli Stivali videro stampigliarsi in quel vortice lucente d’elettricità e vita che era la loro mente.
Ricchezza, agi, benessere, bisbigliarono soddisfatti; gloria e potere!
Trascorrendo alcuni minuti nel buio più assoluto della più assoluta meditazione, gli Stivali decisero il da farsi.
Quasi volando, Stivali e gatto raggiunsero la Strada Maestra dove, di lì a breve, sarebbe passato il corteo reale.
Dopo aver fatto rannicchiare il gatto dietro ad alcuni arbusti, gli Stivali fecero apparire dal nulla un uomo a cavallo.
Era vestito con abiti raffinati e portava il vessillo di una casata che fino a quel momento mai nessuno aveva visto.
A tracolla aveva una bisaccia dov’era custodito un importante messaggio che doveva recapitare al re in persona.
“Sai quello che devi fare,” dissero gli Stivali e il cavaliere partì immediatamente al galoppo tanto che in pochi minuti arrivò nelle vicinanze della carrozza del re.
I soldati, in allarme, misero subito mano alle spade, ma il cavaliere si presentò come ambasciatore del marchese di Carabà. Disse al Capitano della Guardia che doveva recapitare al sovrano un messaggio urgentissimo. Era una questione di vita o di morte.
“Fatelo passare,” disse il re mentre guardava incuriosito lo stemma dello sconosciuto: una forma nera che vagamente ricordava un paio di stivali su un campo azzurro come il cielo. Cercò di ricordare, ma era certo di non aver mai visto quel vessillo, come era certo di non aver mai sentito parlare di questo fantomatico marchese di Carabà.
“Il marchese mio padrone le invia questa missiva,” disse l’ambasciatore.
Il re prese la pergamena e, dopo aver congedato il cavaliere, lesse il messaggio e man mano che leggeva, il suo viso s’incupì.
“Vi sentite bene?” chiese con remissione il suo fidato consigliere.
Il re, per tutta risposta gli porse il rotolo: il marchese di Carabà informava che alcuni suoi esploratori avevano visto un esercito di mercenari penetrare entro i confini del regno. Stando a quanto avevano riferito i suoi uomini, le armate nemiche avrebbero raggiunto la capitale del regno in non più di cinque giorni.
Per far fronte alla terribile minaccia, e come prova di lealtà verso la corona, il marchese offriva le sue truppe per combattere al fianco dell’esercito regio.
Il re, dopo alcuni minuti di attenta riflessione, richiamò l’ambasciatore.
“E’ vera la notizia?”
“Sì,” rispose il cavaliere, “io stesso facevo parte del gruppo che ha avvistato il nemico. Sono penetrati da est, attraverso la piana di Rossella e hanno fatto razzia nel piccolo villaggio sulla riva del fiume” e dopo un attimo di esitazione, aggiunse: “hanno fatto strage nel villaggio, senza risparmiare nessuno. Sono dei barbari.”
“Quanti sono?” domandò il re che capiva perché non fosse arrivata notizia dell’invasione: il villaggio che avevano attaccato era isolato e lontano dalle grandi vie commerciali e se nessuno era sopravvissuto, nessuno avrebbe potuto portare notizie al palazzo reale. Gli invasori avevano colpito in uno dei punti deboli del regno. Scaltri e micidiali. Un nemico estremamente pericoloso.
“Forse diecimila soldati, più le armi d’assedio.”
Il re sospirò: un esercito di quelle dimensioni avrebbe potuto mettere a ferro e fuoco la sua tranquilla monarchia senza troppe difficoltà: l’esercito permanente contava appena cinquemila soldati. Poteva radunare un esercito quattro volte più numeroso, ma anche se avesse inviato i dispacci non appena fosse tornato a palazzo, avrebbe impiegato almeno dieci giorni per organizzare la difesa.
“Quanti uomini può schierare in battaglia il marchese di Carabà?”
“Trecento cavalieri con bardatura pesante,” rispose l’ambasciatore, “più mille arcieri e quattromila fanti".
Il re valutò l’offerta e in un batter d’occhio prese la sua decisione: non aveva mai sentito parlare di questo marchese, ma se era disposto a sacrificare i suoi soldati per combattere al fianco del re e impedire l’invasione, le sue truppe erano ben accette.
“Vieni al castello,” disse il re, “scriverò al tuo signore.”
Il corte reale si mise in marcia.

Gli Stivali osservarono con attenzione la scena e quando il re ordinò all’ambasciatore di seguirlo al castello, esultarono: la prima mossa era stata un successo assoluto. Adesso non restava che persuadere Carabà a non comportarsi per lo stupido che in realtà era e accettare il destino che gli Stivali avevano scelto per lui.
Stivali e gatto tornarono al mulino: Carabà stava parlando con suo fratello, o meglio, lo stava supplicando. Voleva che dividesse con lui i guadagni del mulino.
“Ti darò solo i soldi che guadagnerai lavorando, proprio come faccio io,” disse a Carabà che non replicò: la sua voglia di lavorare era come sempre ai livelli più bassi.
“Lo sapevo,” disse suo fratello irritato e, senza aggiungere altro, se ne andò.
Il gatto si fece avanti e quando Carabà vide l’animale, scattò in piedi, ma gli Stivali lo immobilizzarono con funi dorate germogliate dal terreno: il tempo della persuasione con mezzi gentili era ormai tramontato.
“Adesso ascolterai!” tuonarono gli Stivali; “invece di cogliere l’enormità della tua fortuna, ti comporti come il più sciocco dei superstiziosi!” e il gatto si mise a scalpicciare e saltellare tanta era la collera che ribolliva tra le grinze degli Stivali.
“Se mi ascolterai, potrai diventare l’uomo più importante di questo misero regno,” e per dargliene dimostrazione, ai piedi di Carabà apparvero una spada e uno scudo.
“Gloria e onore per te, insignificante massa di carne,” e vicino alla spada apparve una corona d’oro impreziosita da una decina di rubini grandi come uova di quaglie.
“Ora scegli,” ordinarono gli Stivali, “ma scegli bene perché dalla tua risposta dipenderà il tuo futuro.”
Carabà fissò gli oggetti che l’animale aveva fatto apparire: i suoi occhi erano attirati non dalla spada, bensì dalla corona. La sua avidità gli aveva suggerito che con tutto quell’oro poteva comprare non solo un mulino, ma anche una bottega con dei garzoni e vivere da gran signore. A conti fatti poteva tollerare un po’ di stregoneria, specialmente se questa gli avesse garantito un’esistenza ricca e dignitosa.
Carabà annuì ed ascoltò con molta attenzione quello che l'eredità di suo padre aveva da dire.
Gli stivali parlarono per qualche minuto e quando ebbero finito, Carabà sembrava un autentico secchio di latte tanto era pallido: la prospettiva di dover combattere andava oltre le sue capacità d’assimilazione e un ringhiante terrore lo inondò da capo a piedi. Fu addirittura tentato di scappare, ma gli Stivali gli fecero notare quanto fosse stupida quell’idea.
“Ma io non voglio morire,” piagnucolò Carabà.”
“Non morirai,” fu la secca risposta degli Stivali, che cominciarono a domandarsi se fosse un bene sprecare tanto potere per uno come Carabà.
Non seppero darsi risposta.

Le truppe del marchese di Carabà apparvero il mattino dopo in una piccola radura non molto lontana dal mulino.
I soldati non appena videro arrivare il loro condottiero con tanto di armatura scintillante, esplosero in un boato assordante.
Naturalmente Carabà non disse o fece alcunché perché non aveva la più pallida idea di cosa dovesse dire o cosa dovesse fare. Chi era lui, figlio di un mugnaio, per poter guidare un esercito?
“Ci sono gli ufficiali per questo,” risposero gli Stivali; “adesso monta a cavallo e vai dal re,” ed un paggio portò a Carabà un magnifico cavallo bianco, un animale degno del più grande guerriero di tutti i tempi. Per la prima volta nella sua vita fatta di pigrizia e opportunismo, Carabà si sentì un autentico impostore. In cuor suo si disse che avrebbe provato a rimediare, o almeno a meritarsi quello che il destino gli aveva riservato. Non aveva familiarità con il concetto di redenzione, ma quello che stava provando era quanto di più si potesse avvicinare alla remissione totale della frivolezza che fino a quel momento aveva segnato la sua esistenza.

Il re accolse lo sconosciuto marchese e senza perdere tempo in regali formalità, discussero dell’imminente minaccia.
Seguendo la voce degli Stivali che bisbigliava nella sua testa, Carabà suggerì una brillante e audace strategia d’attacco che prevedeva un massaccio attacco iniziale ad opera degli arcieri. Scoccare il massimo numero di frecce nel minor tempo possibile per poi far entrare in gioco la cavalleria.
"Ingaggeremo battaglia nelle vicinanze del Rio Carso e sfrutteremo a nostro vantaggio la pendenza del terreno," disse Carabà, "farò partire la cavalleria dalle retrovie e muoverò verso il nemico," un attimo di silenzio, poi concluse: "ma non ci sarà un attacco fronatale, come è usanza, bensì colpirò al fianco sinistro dell'armata nemica. Li annienteremo mio re, e di loro non resterà che il ricordo."
"E la fanteria?" chiese il re.
"I fanti daranno il colpo di grazia agli invasori," rispose Carabà.
Il re, soddisfatto del piano militare, diede ordine affinchè le truppe si metessero subito in marcia.
Seguendo un itinerario serrato, dopo due giorni, fu avvistato il nemico.
“Chi sono?” domandò il re fissando il vessillo dei nemici: un orrendo occhio bianco su sfondo nero.
“Sono il male,” risposero gli Stivali per bocca di Carabà.

Non ci furono incontri per negoziare un accordo o qualunque proposta diplomatica.
Parlarono le armi e la guerra fu titanica, colossale. Una battaglia diventata leggenda e della quale ancora oggi si parla.
La vera, grande magia di quel giorno fu che, a dispetto di quanto fosse possibile immaginare, Carabà trovò il coraggio di scendere in campo, coprendosi d’onore. L’esercito nemico fu decimato e al calare del sole la guerra era vinta.
Tre giorni dopo, nella Piazza Grande della capitale, il re porse omaggio all’alleato che aveva salvato il suo regno e, come ricompensa, gli affidò in feudo la provincia più ricca di tutto il paese.
Tra il popolo era corsa voce delle nozze tra il marchese di Carabà e la figlia del re, anche se niente in proposito era stato deciso.
Carabà portò i suoi uomini al nuovo castello dove visse lunghi anni in pace e prosperità.
Al suo fianco c’era sempre il gatto e c’erano sempre gli Stivali e se Carabà aveva ormai accettato l’idea di un gatto parlante, il gatto invece provò per tutta la vita a liberarsi di quei fastidiosi stivali che avevano tanto cambiato la sua esistenza fatta di ozio e irrazionalità felina.

venerdì 4 gennaio 2008

Mattina d'inverno - poesia finalista del premio "Onda d'arte 2006"

Affusolati rami di vetro
scivolano laconici
sul panneggio
di un cielo immacolato
dove un bianco mosaico
di vibranti respiri condensati
volteggia in furtive armonie
accarezzate da cristalli di vento.

Un brusio scende dal cielo
in lenta e quieta infinità:
la neve che cade,
puro cuore dell’inverno
che avvolge il mondo di silenzio:
una briciola d’amore celeste
che torna alla terra.

In qualche posto segreto - finalista della prima edizione del premio letterario "Il Montello" - L'incipit

Niente e nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea sulla notte in cui sua moglie era morta, vittima di un incidente stradale: aveva visto il barbone in mezzo alla strada, davanti al muso della macchina pronto per essere investito. Una rigida figura in abiti squallidi e sporchi in attesa dell’inevitabile schianto.
Sfortunatamente Lory aveva sterzato...